20 Dicembre ’20 – Solstizio XX XX Outskirts

Non mi stancherò di ripeterlo, Outskirts a mio parere è l’estrema sintesi di ciò che una bici da corsa con le Vibram può offrire, in più, ogni volta che la percorri, ti regala una Milano diversa, “da respirare” più che “da bere”.

Per questo motivo quest’anno, appena ho potuto, mi sono infilato sulle tracce di Outskirts, solo, in compagnia, sotto la caldazza, circondato da tupipani o, come è successo quest’ultima volta, sotto la pioggia in una versione Solstizio XX XX .

Aderenti alle direttive DPCM, in pochi amici abbiamo pensato di ritrovarci per un ultimo giro prima delle “Feste” (diciamo così) di Natale. Io, Davide, Roberto, Beppe, Stefano, Paolo, Giorgio e Chief, senza riserve sul meteo, ci siamo dati appuntamento più per brindare alla fine di questo maledetto anno che per pedalare seriamente nei tratti di sterro sparsi sul ring.

Sarà stata la pioggia, sarà stato il ristoro in cima del Monte Stella, ma anche questa volta l’amico Giorgio ci ha regato un gran bel pezzo dedicato al giro e, molto volentieri, lo riporto integralmente qui sotto.

Solstizio d’inverno: sì, ma il sole dov’era?

Altre congiunzioni astrali, siderali coincidenze, movimenti nelle sfere celesti e crociere verso l’infinito e oltre ci attendevano, ma il giorno dopo. Noi siamo in anticipo di oltre ventiquattro ore. Il cronografo segna l’ottava ora del giorno, anzi dopo, grazie a un tour imprevisto sulle tangenziali milanesi di chi narra, con ritardo inammissibile. Così, io sono l’ottavo Re Mago, quello ritardatario: perché a Milano il tempo – anche quando è brutto – è prezioso e la puntualità è dovere morale. La nonna di mia moglie, nativa dell’Isola Garibaldi,  andava alla Centrale con così tanto anticipo da prendere il treno prima. Mi spiego?

Noi, Re Magi di periferia, suburbani. Ma i nostri sono cammelli a pedali: d’acciaio (bellissima la Bice, nuova di pacca, di Beppe sottratta alla custodia dell’albero di Natale) così come l’Alfa di Max, rinata, stampellata sull’anteriore dalla lefty Ocho alla prima uscita seria, o d’alluminio come per le front di Roberto e il Gabbo, con la bella Cannondale d’antan da vere ruote grasse, o in fibra, con i gemelli perfetti dalle Topstone uguali precise di Stefano e Giorgio, e Paolino con la Trek. Il Davide in Ebike, un vero dromedario elettrico: lui, il Mago che porta l’oro.

Nel solstizio d’inverno alla milanese, noi otto ciclisti ci cammelliamo a compiere il perimetro della metropoli in una giornata piovigginosa, da lamento e coperte nel letto: Outskirts, lo conoscete, ma senza sole e magnifiche sorti panoramiche e progressive. Bigio e grigio. Senza cometa. Milano d’inverno, come ha da essere. Con la caligine e la bruma, con Totò e Peppino per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare? Coi grattacieli spuntati, mozzati per vendetta dalla nebbia che non vedi dove arrivano.

Milano e la pioggia, quella che c’era prima del cambiamento d’epoca e climatico, prima del virus, prima del duemilaventi, accidenti. La pioggia, quella migliore. Che ti dice:
 “no, varda, è solo pioviggine, solo puntini sul parabrezza e sulle lenti degli occhiali; una roba che non peggiora, tranquillo, pedala te gh’è la GRAVEL, no?”
E qui il dialetto milanese che conosce minga ‘sta parola inglesa, dovrebbe in effetti aggiungere:
“ma se l’è  questa cosa della GRAVEL? “
e mentre tu di metteresti lì, d’impegno, a spiegare che la parola vuol dire ghiaia, che negli States, ecc. ecc., e il traffico, e il fuoristrada, e non è una moda, e l’acciaio, e l’alluminio, e i freni a disco, e le gomme, tubeless o con camera d’aria, o da 37, da 42 e il cerchio più grande, più piccolo, e questo e quest’altro, Milano e il milanese avrebbe portato l’attenzione altrove – anzi, l’avrebbe fatto dopo 22 secondi – perché non abbiamo tempo, si va e si fa di fretta, se sta minga cont i man in man e se sei qui per pedalare, pedala e si pedala con i garoni non con le chiacchiere.

Così, si passa Affori e la sua banda, lasciato il Parco Nord, di punta verso la Buisa (si direbbe Bovisa, ma suona male) e scalvacata la relativa stazione il corteo, distanziato come si deve, si inabissa nel sottopassaggio di Villapizzone  e riemerge verso il Mac Mahon, e la Gilda, viale Certosa, dove una certa aria da Rocco e i suoi fratelli è rimasta in zona. E’ la Milano-non-Milano, questa. Quella dei Corpi Santi, una storia interessante da vedere su https://it.wikipedia.org/wiki/Corpi_Santi_di_Milano , dei trentacinque comuni del circondario che divennero città loro malgrado e qui diventano Outskirts: che grondano storie di periferia e cemento, olio di macchina e smog di quando il Duomo era nero e, oggi, pedaliamo nel silenzio, sospesi in una pestilenza non visibile.

Ma noi siamo i Magi a Pedali.
Ce lo ricorda quello che viene da più lungi, che porta in dono il sonno di tre ore, che augura Buon Natale a ognuno incontri e gli si affianchi. Anche ai cagnolini a un capo del guinzaglio e alle signore all’altro e a signori più seri che rispondono cortesi e ricambiano; così lui, genio ironico e alcolico, alla fine ci crede pure lui.

Siamo così alla vetta del nostro viaggio. Alla grotta ci vogliono un po’ di giorni ancora. Ma la vetta c’è e di lì si vede il panorama del nostro futuro. Nebbia su tutti i lati.

Nondimeno, Monte Stella rimane quello che il nome dice. Monte e astro, lo sappiamo, lo sapete. Quando si giunge in cima a qualcosa, si è sempre felici; i sorrisi si sciolgono, la fatica si dimentica, anche la figuraccia di dover essere sceso di sella e farla a piedi (solo Max, mi pare, in perfetto stile lord del gravel non mette piede a terra, con l’umido che rende ancora meno consistente del solito il fondo, e dico fondo e non terreno, perché quelle sono macerie non terra). La bottiglia del Vov alle 10 del mattino a corroborare diversi giri di Kinder Brioss: bello, questo giallo sole e uovo che sa di estate e luce. Le foto vanno, la bottiglia gira, le immagini sono lì, grigio su grigio ma dentro un po’ di calore, e il tasso alcolemico, chissà.

Via, bisogna andare.
Ciao, al Meazza, ciao al Beccaria e al Lorenteggio. Qui la metropoli si restringe. Corsico, i Navigli, prima il Grande poi il Pavese, dove Milano è più vicina al contado che ci aspetta, di lì a poco. Prima però si scavalca quel ponte in zona ticinese sul Naviglio Grande che pare una Turifell sdraiata. Tutto ferro su ferro, dipinto di un verdino improbabile, altissimo sulla superficie dell’acqua che ci passerebbe sotto una portaerei e sopra un treno merci. È qui che la città si mette le scarpe pesanti, con la pioggia che si dimentica la promessa di prima.

Scarpe pesanti e tacchetti d’acciaio, sul ponte ferroso – il ponte  Richard Ginori – e per spingere sui pedali da fuoristrada, perché dopo Selvanesco (che nome! con dentro una selva magari oscura) Il Gabbo mezzo filosofo inizia a pestare sui pedali. La pista colore del Groviera coi buchi, però pieni d’acqua, diventa un’autostrada con lui in terza corsia e senza freccia. La vecchia bestia metallica e yankee, di alluminio aeronautico, diventa uno pterosauro, un dinosauro volante, spinto da reattori razzi Nasa. Ma non lo fa scattando: procede con progressione all’inizio leggera, salvo poi dimenticarsi del resto del mondo . “E cosa?” mi dico io. “Mica potrò farlo andar via così”. Parto all’inseguimento. Siamo verso Chiaravalle. Tra un rimorso per come sto spronando la biga nuova, tra uno scarto e uno schizzo, tra acqua e fango che dopo tre giorni non avrò finito di rimuovere, lo raggiungo. Fa lo gnorri, l’indiano, l’indifferente, l’amico. Altro che Re Mago. Questo viene dalla bergamasca  a portare la sfida nella terra del Ducato dei Visconti e degli Sforza. Appunto, nel territorio dell’abazia cisterciense e milanesissima. Non passerà.

Ma un tratto d’asfalto e una foratura del buon Paolino, persona dolcissima e affabile, riporta la pace mentre intravedo un monaco con la coda dell’occhio allontanarsi, canti gregoriani in sottofondo.

Altro giro di Kinder Brioss estratti dalla dispensa che Max porta sulla schiena. Niente Vov, però. Ha già dato i suoi frutti.

La ripresa ci trova più freddi e silenziosi, in bicicletta si fatica.

E prima di tornare all’Urbe, appare il castello di Peschiera fermo e sospeso nella bruma come ai tempi dei Carlo e Federico Borromeo. Col fossato, il ponte levatoio, le torri, più rocca e maniero di suoi simili superstiti. “Chi vuole la guerra, oggi?” penso fra me.

Avanti a me ancora la pista color formaggio, anzi cappuccino con poca schiuma: gli pneumatici, dopo una certa sbarra e una cascina, tornano a sfrigolare sulla ghiaia, sul gravel modaiolo. 

Avanti al mio sguardo una nuova pista, con altre buche da scansare, tracce sottili da seguire per aggirare pozze e laghetti; da fare in velocità crescente, accelerando. Magari con qualche saltino, così, innocentemente anche per scaldarsi visto che il fresco c’è.

Vado. Gli, altri sereni compagni di viaggio, si allontanano dalla mia vista. Un’illusione ottica, forse. Il Gabbo è lontano ma aumenta, questa volta con un passo da dinosauro delle argille del cretaceo, che sono la fangazza di oggidì. “Marameo al maramaldo, stavolta non mi becchi” dice una mia voce interiore. E accelero e accelero in un trionfo di spruzzi e fango dalle pozzanghere che non evito più. Ogni tanto la bici scoda, perde aderenza sul retro per un attimo, ma basta spingere ancora di più e torna in equilibrio sebbene io pedali come uno squilibrato. Mani sui corni bassi del manubrio, controllo del mezzo come se la locomotiva “sembrava fosse cosa viva” (cit. Guccini, eh). Ma in realtà sono un uomo-moto. Mi sento un Husqvarna.

Mi salva dalla figuraccia di essere ripreso dall’uomo in groppa al triceratopo la  nuova sbarra di un altro cascinale in fondo alla strada. Io so per certo che non ne avevo più, Il mio vecchio motore era a fondo scale e il contagiri urlava di terrore. Ma la Serenissima non l’ha avuta vinta. L’onore di Sant’Ambrogio è salvo, alla faccia di San Marco.

Esagero? Non so, in questi giorni in cui il Sangue di San Gennaro fatica a liquefarsi, salva me e noi il ritorno alla città, ai sobborghi. Quelli ricchi di Milano 2, ordinati e curati dal dietologo, lasciata Segrate e la Cassanese alle nostre spalle. O ancora, quelli popolari e schietti della Martesana. Torniamo al nostro passo quieto da viaggiatori urbani. Con qualche inquietudine, magari. Tipo quella dei palazzoni enormi e nuovi, mezzo disabitati di via Adriano o quella dell’incerta sorte della Bicocca, delle grandi industrie dismesse. Abitavo da quelle parti, da bambino. Me lo ricorda l’ultimo ponte tra una regione e l’altra della città, tra un quartiere e un altro degli organi pulsanti e vivi di un corpo oggi sonnolento di questa domenica di mezzo lockdown, nello scavalcare viale Fulvio Testi.

Un ultimo tratto nell’ordinato parco Nord, salutato il casalingo velodromo.

Non c’è ancora la capanna, la grotta. Ma i Re Magi Outskirts con le loro facce vissute e un po’ sgonfie le gomme sanno che la strada c’è. Anche se non si vede la cometa. Che è come la nebbia. E quando la nebbia c’è, non vi vede. Baci e abbracci distanziati, ma l’anello è chiuso: una fede nuziale per la Milano che torniamo a sposare.

Giorgio Tomasino

foto Paolo Sacchi – mosaico by Roberto Moscatelli

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